Chi sono i veri influencer?

Cinquanta anni fa, le Olimpiadi di Città del Messico furono contrassegnate dalla protesta degli atleti di colore contro le discriminazioni razziali che soffrivano nel loro Paese. Quell’evento rimase alla storia grazie ad un’immagine in cui il vincitore – Tommie Smith, il primo uomo a scendere sotto i 20″ sui 200 metri – e la medaglia di bronzo John Carlos indossarono dei guanti neri in un atteggiamento fermo e orgoglioso.

In quell’immagine, l’atleta bianco – l’australiano Peter Norman – apparse distante, impacciato sebbene fosse stato proprio lui a suggerire ai due atleti di colore di indossare un guanto a testa dopo che uno di loro si era dimenticati i suoi in albergo. Risultò anche fuori luogo nonostante che la coccarda che indossò in solidarietà della protesta gli abbia poi procurato l’ostracismo della sua federazione nazionale per tutte le successive edizioni delle Olimpiadi.

Solo a distanza di anni, alla sua morte, Tommie Smith e John Carlos ne riabilitarono la memoria portandone in spalla il feretro: la sua posizione in quel lontano ’68 fu netta, ma mancò di essere espresso nel momento in cui contava. Gli dobbiamo ammirazione e rispetto, ma – sul piano della comunicazione – non ne dobbiamo seguire l’esempio.

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Viviamo infatti in tempi di disincanto nei confronti dei social media e di maturazione della coscienza critica riguardo a Facebook ed al suo essere edicola, luogo deputato a reperire informazioni più liberamente e “dal basso”. Cresce una rinnovata consapevolezza della necessità di aver bisogno di un filtro giornalistico o editoriale per accedere all’informazione e della protezione della nostra vita digitale da aspetti quali la tutela dei dati e la difesa dalle fake news a cui, secondo una recente ricerca Ericsson, il 54% degli utenti americani e britannici confessa di aver dato credito.

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Questo non significa che rifuggiamo da Internet e necessariamente ritorniamo ai mezzi tradizionali di informazione, ma che ricorriamo in modo crescente a persone che, per il loro talento e per la loro esperienza, appaiono ai nostri occhi come più capaci di offrire una prospettiva da cui guardare il mondo e ai quali ci avvicinano sentimenti di fiducia, empatia, aspirazione. Nel mondo dell’informazione assumono un ruolo crescente gli editorialisti, nel mondo della comunicazione i cosiddetti “influencer”.

La prima volta che ho sentito parlare di influencer è stato nel 2013 quando l’incantevole paese di Montefalco in Umbria aprì le sue cantine e invitò non solo i giornalisti del settore a raccontare in modo competente il territorio, ma si avvalse dei “twitteri” più famosi di allora – come Lia Celi e Il Triste Mietitore – per aumentarne la visibilità ed estenderla ad un pubblico più ampio.

Da allora, il concetto di influencer ha visto accrescere il suo uso a tal punto da aver snaturato il suo significato ed il continuo coinvolgimento di fashion e food blogger nella comunicazione d’impresa fino ai più recenti “bookstagrammer” rischia di far perdere senso al concetto stesso di influencer digitali, confuso fra quelli più tradizionali di testimonial e brand ambassador.

Se un testimonial è una celebrità che per la sua fama rende più convincente un’attività di comunicazione di un’azienda o di una organizzazione e se il brand ambassador è lo stesso cliente finale che con il suo passaparola ne promuove l’acquisto presso gli amici, l’influencer è in parallelo sia la figura che per la sua credibilità è portatore di valori coerenti con quelli che intende trasmettere la marca sia il media che, grazie alle piattaforme digitali su cui è presente, può propagarne il messaggio.

Per questo motivo, la valutazione che deve essere fatta in merito alla scelta degli influencer da coinvolgere in una duplice veste: qualitativa in merito alla persona, quantitativa in relazione alle metriche da osservare per valutare i rendimenti dell’operazione.

Scegliere un influencer non è infatti solo una valutazione tecnica dei contatti pubblicitari che possono essere prodotti grazie all’esposizione di un prodotto o di un servizio, ma il frutto di una scelta che deve essere improntata alla coerenza fra le caratteristiche del personaggio e i valori che intende comunicare il brand. Ecco perchè contano aspetti quali:

– la credibilità dell’influencer nei confronti del suo pubblico e che, ad ogni post o Storia, è messa in gioco come abbiamo compreso con il episodio della festa di compleanno di Fedez;

– la “promessa” fatta ai propri follower e l’originalità del tono di voce con cui la persegue;

– la competenza tecnica nell’uso delle piattaforme digitali, dei linguaggi e dei loro strumenti prevalenti;

– la leadership che ha saputo acquisire presso la community di riferimento;

– la capacità di accogliere e promuovere una causa o un partner commerciale nella sua narrazione in modo da non suonare inautentico e, nello stesso tempo, inefficace.

Per dirla in gergo teatrale, la comunicazione deve rispettare lo slogan “tutto è finto, nulla è falso”: l’influencer marketing non può ripercorrere il registro della pubblicità (“falso”) con banali attività di product placement, ma deve inserirsi in un racconto e non sconfessarne la promessa che vi sta alla base. Nello stesso tempo, si tratta di una vera e propria attività di comunicazione (“finto”) e quindi rispondere ad un progetto che ha degli obiettivi, una execution che non può essere improvvisata (“vero”), uno svolgimento e verifiche con cui valutarne il rendimento.

La valutazione di un progetto di influencer marketing non può dunque essere trattato solo in termini di contatti pubblicitari nè limitarsi all’engagement prodotto dai post pubblicati: di volta in volta, la metrica da adottare deve scegliersi sulla base dell’influencer e del progetto.

Per supplire a questi limiti in un mercato che, pur emergente, rischia già di essere una bolla pronta a scoppiare, le piattaforme social stanno offrendo nuovi strumenti come i co-brand post per offrire alle aziende maggiore trasparenza in merito al budget investito, alla portata raggiunta, alle caratteristiche socio-demografiche del pubblico coinvolto.

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Un esempio di co-brand post su Facebook

L’evoluzione del fenomeno deve però scontare la sua rapida esplosione a seguito della quale gli influencer più conosciuti sono oggi anche quelli meno in grado di curare puntualmente la relazione con la propria community: il risultato è che sono i cosiddetti “micro-influencer” – quelli con meno di 10 mila follower – ad ottenere i risultati migliori in termini di attenzione e consenso e l’influencer marketing deve districarsi nella lunga coda di nuovi possibili partner insieme ai quali creare progetti di comunicazione sostenibili ed incisivi. Di qui lo sviluppo di operatori professionali dedicati a questa attività, piattaforme di scouting, agenzie specializzate e tool avanzati di mappatura ed analisi come Influence.co.

Se l’influencer marketing non vuole pertanto essere l’ennesima moda del marketing digitale destinata a ripiegarsi su stessa, il mercato dovrà velocemente sviluppare professionalità capaci di individuare e mappare al meglio gli influencer e modelli di collaborazione validi.

Infine, le marche dovranno riconoscere che questa nuova forma di marketing non è uno scorciatoia o una via più conveniente per farsi pubblicità, ma una strategia di comunicazione con registri linguistici propri e set di valutazione specifici senza dimenticare che, se alcune persone sono più influenti di altri, i nostri amici sono i più influenti di tutti e una attenta relazione con clienti e utenti è, anche ai tempi dei social media, la pubblicità più efficace.

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