Il digitale e la politica: dalla trasparenza alla parvenza

Nelle occasioni in cui Matteo Renzi, all’indomani della sconfitta referendaria e del crollo elettorale nelle Politiche del 4 marzo, ha fatto autocritica ha attribuito parte della responsabilità di tali sconfitte al prevalere degli avversari sui social media e qualche giorno fa persino Silvio Berlusconi – da anni presente, ma sempre senza troppa convinzione – ha ammesso che un uso poco efficace della comunicazione politica digitale è stata una delle cause alla base dello scenario politico così radicalmente cambiato nell’ultimo anno.

silvio

Quando oggi parliamo di comunicazione politica digitale non possiamo pertanto fare a meno di riconoscere la centralità che la presenza sui social media ha assunto sia nell’agenda-setting della politica italiana sia nei processi di disintermediazione fra leader ed elettorato, a discapito di una trasformazione che ha visto perdere di ruolo non solo le forme di relazione territoriale dei partiti, ma persino associazioni, meet-up e affini. Oggi il leader – ma anche chi non è tale – comunica direttamente con i propri follower e i militanti svolgono la loro funzione nel gestirne la distribuzione dei contenuti all’interno di gruppi Whatsapp ed ambienti semipubblici come i Gruppi Facebook.

Selfie, tweet, dirette Facebook hanno preso il posto di quella che sino a pochi anni fa definivamo “partecipazione online” e vengono via via sfruttati per prendere posizione o per distogliere l’attenzione da altri, e più spinosi temi: è quello che Lakoff definisce l’elefante, un elemento comunicativo così ingombrante da portare le altre notizie ad essere sottaciute, le richieste di chiarimento da parte dei giornalisti ad essere poste in secondo piano perchè, semplicemente, non più notizie.

Che cosa ha prodotto questo cambiamento? Perché il digitale, da strumento di trasparenza, è diventato il luogo della parvenza? Di una rappresentazione unilaterale e, in quanto tale, parziale della realtà e funzionale ad un preciso obiettivo politico.

È semplice. Le piattaforme di partecipazione politica forse non rappresentavano un’utopia, ma mettevano in luce quanto faticoso fosse, e sia sempre più, il processo democratico e quanto esso sia sensibile alle asimmetrie prodotte da minoranze organizzate e attive nel portare avanti alcune istanze o nel bloccarne altre. Come tali, le piattaforme non potevano dunque che riguardare un ristretto campo di cittadini attivi e condurre non sulla via della delega e della democrazia rappresentativa, ma sulla via del rapporto diretto leader – follower e di una visione plebiscitaria della democrazia diretta.

La seconda ragione per la quale il digitale oggi non è più partecipazione politica, ma finzione narrativa è legato alla necessità della comunicazione social di essere breve ed incisiva e dunque immediata ed emotiva. Ai metodi razionali ed ai toni collaborativi della e-democracy, si è sostituito il clima necessariamente ansioso ed ansiogeno che, solo, può produrre engagement e viralità.

salvini

Se il futuro della politica digitale sarà dunque una sua ulteriore involuzione verso le modalità tradizionalmente unilaterali dei mezzi di comunicazione o se invece il digitale tornerà ad essere una leva di partecipazione, dipenderà dal ruolo che i corpi intermedi assumeranno nel futuro. Comunità, associazioni di categoria, sindacati, gruppi di interesse e di pressione, nuove forme di rappresentanza sapranno riprendere il proprio ruolo? Saranno soprattutto in grado di avvalersi della Rete come leva competitiva del consenso e di una rinnovata relazione di fiducia con la propria base?

Non c’è alcun dubbio che da questo bivio nell’uso della Rete in politica, non dipenderà solo il futuro dell’impiego di questo mezzo, ma un aspetto non secondario della forma e della sostanza della nostra democrazia.