Il Reddito di Cittadinanza, un’occasione mancata per creare nuovi professionisti del digitale?

Il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ha recentemente sostenuto che lo sviluppo di autostrade digitali potrebbe produrre un boom economico paragonabile a quello che sessant’anni fa il nostro Paese visse, anche grazie all’accelerazione imposta dal piano di realizzazione delle autostrade che unirono l’Italia come mai era avvenuto prima.

Al di là della retorica mostrata nell’occasione, questa affermazione pone un problema concreto ed interroga la capacità del sistema Paese di colmare il gap che, sul piano delle tecnologie informatiche, vedono ormai da anni l’Italia agli ultimi posti in Europa non solo quanto ad infrastrutture di connessione (le “autostrade digitali” nella metafora del Vice Premier) e stato di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, ma anche quanto a preparazione del capitale umano (fonte: DESI Index, 2018). Saprà la prossima riforma del mercato del lavoro innescata dal Reddito di Cittadinanza, per quanto riguarda l’ultimo punto, incidere su questo fronte attivando un processo virtuoso di incontro fra domanda ed offerta? Se fallirà in questo obiettivo, allora costituirà un’occasione persa e dovrà essere valutata, in modo più riduttivo, più come una misura assistenziale di sostegno al reddito che come una strategia complessiva di inserimento nel mondo del lavoro e di miglioramento delle condizioni di competitività delle imprese.

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Il DESI Index 2018.

Se la Rete e i social media sono esplosi in Italia al punto che un italiano su due è iscritto a Facebook e il 56% della popolazione acquista online, ciò non significa infatti che il digitale si riveli capace di produrre ricchezza nel nostro Paese: le difficoltà sul fronte fiscale nei confronti delle aziende che gestiscono i grandi snodi digitali e l’elevata automazione dei processi da cui sono queste ultime sono contraddistinte fanno sì che le ricadute in termini di distribuzione di valore e crescita occupazionale siano limitate e ci portano a concludere – con più disincanto rispetto al passato – che il digitale non deve essere guardato come un bene in sé se non nella misura in cui sia effettivamente adottato dal tessuto delle piccole e medie imprese del nostro territorio e ne diventi strumento di efficienza dei processi e leva per promuovere in Italia e all’estero i prodotti e servizi offerti.

Per fare questo, servono però professionisti sensibili al tema, consapevoli delle opportunità e delle cautele con cui servirsene, preparati e capaci allo stesso tempo di confrontarsi con ambienti di lavoro tradizionali come le PMI e di sviluppare il loro apporto all’interno di catene del valore che sfuggono al perimetro territoriale e che richiedono di lavorare su piattaforme digitali – Facebook, Google, Amazon – improntate per lo più ad un uso automatico e standardizzato. Tali professionisti non sono solo figure strategiche che ragionevolmente esulano dalla platea del Reddito di Cittadinanza, ma anche figure più operative che mancano – 135 mila le posizioni scoperte stimate da Adecco – e che sono legate a mansioni quali il customer care sui social media, il data entry e l’analisi dei dati online, le operations delle attività e-commerce.

Per capire se la prossima riforma del mercato del lavoro possa essere efficace in questa direzione, è evidente che occorre interrogarsi sul ruolo dei centri dell’impiego: da uffici che oggi svolgono prevalentemente funzioni tecnico-amministrative, essi debbono – velocemente – riqualificare le proprie competenze per diventare luoghi di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Senza che suonino retoriche, le domande che serve porsi sono dunque, sul fronte che stiamo analizzando, le seguenti:

  • saranno capaci i centri per l’impiego – e i cosiddetti “navigator” – intercettare e comprendere i bisogni delle imprese al punto da motivarle adeguatamente all’inserimento di personale con sensibilità e competenze digital?
  • sapranno le aziende accogliere tale personale e condurli in percorsi di training on job tali da rendere questo apporto strutturale così da produrre quello sviluppo dal basso che ci si attende?
  • riusciranno i centri per l’impiego ad attivare collaborazioni efficienti ed efficaci con il mondo della formazione per preparare i nuovi lavoratori e fornire loro competenze non astratte sui temi della Rete?

Se le risposte a queste domande saranno dei “no” allora assisteremo a qualcosa di molto più semplice di una riforma del mercato del lavoro e, cosa pur lodevole, assimilabile al reddito di inclusione che minor fortuna ha però avuto sul piano della visibilità politica. Più alte sono le aspettative, più elevata sarà la delusione.

Più mestamente ancora, guarderemo a questo passaggio come un’occasione persa per rendere il nostro Paese non un mercato di sbocco dei servizi digitali – questo lo è già senz’altro – ma un ambiente capace di servirsi del digitale per lavorare e per creare crescita e sviluppo per tutti. E cominceremo – in un clima di declino che già permea la vecchia Europa – a pensarci come un Paese che rinuncia a vedere nella tecnologia uno sprone a migliorare la produttività e a mettere in circolo la creatività grazie ad un approccio medium-tech per adottare la facile scusa che il futuro sia la Jobless Society che talvolta emerge in qualche futuristica e tranquillizzante previsione. Più seriamente il World Economic Forum, nel suo Future of Jobs, afferma che l’Italia è uno dei Paesi dove è più alto il rischio di perdita di posti di lavoro perché più elevata è la percentuale di lavori con mansioni di routine, rimpiazzabili dalla robotica.

La risposta a una sfida così grande non è certamente limitata alla riforma del mercato del lavoro, ma richiede cambiamenti più ampi sia sul piano macro – un sistema amministrativo più efficiente e un sistema finanziario più capace di supportare le imprese ad innovare – sia sul fronte micro, grazie ad un rinnovato ruolo dei distretti, delle associazioni di categoria, degli attori della rappresentanza. Ma non c’è alcun dubbio che occorrono risposte rapide ad imprese che, da più fonti, affermano che il 20% delle ricerche del personale attive sono “di difficile reperimento” (fonte: Il Sole 24 Ore, 2017)

L’alternativa è il riprodursi di quel connubio vizioso che troppo a lungo ha visto nel nostro Paese bassa produttività e bassi salari, ma in un mondo nuovo che – anche per via della rivoluzione tecnologica dell’informazione e della produzione in atto – vede emergere nuove forme di povertà e, di conseguenza, di marginalità sociale.

L’innovazione – si sa – non è un pranzo di gala, ma la storia non è ancora scritta. Se esiste un disegno di riforma del mercato del lavoro che non sia limitato al Reddito di Cittadinanza e se tale disegno non sarà portato a compimento, questa mancanza non solo rappresenterà il fallimento di una sfida portata avanti da un governo e da una forza politica, ma un preoccupante segnale di incapacità del nostro Paese di rinnovarsi in un mondo che cambia e che, anche per via del digitale, produce mutazioni più radicali e più veloci di qualunque altra fase di trasformazione prodotta dalla tecnologia che la storia abbia vissuto.